L'ennesima strage in acque territoriali italiane ci spinge a ribadire che il soccorso in mare è un obbligo. Lo sancisce il diritto marittimo internazionale
Qui a Bolina parliamo di belle barche, successi sportivi, ambiente, storia marinara, normativa nautica, regate, fauna marina, eventi culturali, libri di mare, etc. È la nostra vocazione, sono questi i nostri temi di riferimento.
Ma come possiamo tacere di fronte all'ennesimo dramma di chi in mare perde la vita nella speranza di un futuro migliore?
Come possiamo voltare lo sguardo altrove e far finta che le almeno 60 persone di origine afgana morte lunedì 17 giugno a circa 120 miglia dalle coste calabre, non siano mai esistite?
Hanno fatto naufragio a bordo di una barca a vela partita dalla Turchia una settimana prima e stipata all'inverosimile. Uomini, donne e bambini a cui quelle bestie di trafficanti di esseri umani non si sono neppure preoccupati di fornire dei giubbotti di salvataggio. E sono annegati, miseramente, come gli altri oltre 750 che hanno perso la vita in mare dall'inizio del 2024.
Non è nostra intenzione affrontare la questione sotto il profilo politico, ma umano sì perché la solidarietà tra marinai è (o dovrebbe essere) una predisposizione spontanea.
Dalle testimonianze raccolte tra le 11 persone che sono riuscite a sopravvivere al naufragio del 17 giugno si evince che la barca sia stata avvistata da altre unità ma che nessuno si sia fermato a prestare soccorso. Il che, purtroppo è comprensibile poiché il salvataggio di una tale mole di disperati in stato di shock avrebbe con ogni probabilità compromesso la sicurezza di altre imbarcazioni da diporto.
Non è invece comprensibile che chi ha incrociato la rotta dei disperati non abbia sentito il dovere di lanciare l'allarme. Si è dovuto attendere il fortuito passaggio di una barca a vela francese affinché il may-day fosse finalmente raccolto dalla Maritime Rescue Coordination Centre di Roma che ha quindi dirottato in zona due cargo di passaggio e due motovedette della Guardia Costiera. La carretta di quei disperati si stava riempiendo d'acqua già da 4 giorni.
L'occasione ci spinge dunque a ribadire che il salvataggio in mare non è un'opzione, ma un obbligo. Lo sanciscono il nostro Codice della Navigazione e diversi trattati che si sono succeduti dai primi del Novecento a oggi e che costituiscono le basi del diritto marittimo internazionale.
Già la Convenzione internazionale per l’unificazione di alcune regole in materia di urto fra navi, ratificata nel 1910 a Bruxelles, nell’articolo 8 stabiliva che: “a seguito di una collisione fra navi, il capitano di ciascuna di esse è tenuto, in quanto lo possa fare senza serio pericolo per la sua nave, il suo equipaggio e i suoi passeggeri, a prestare assistenza all’altro bastimento, al suo equipaggio e ai suoi passeggeri”.
Nel 1914, dopo il naufragio del Titanic del 1912, i rappresentanti di 164 paesi si incontrarono a Londra per siglare la Convenzione internazionale Solas con l’obiettivo di stabilire una linea comune su tutte le questioni tecniche associate alla sicurezza in mare. Un regolamento incentrato dunque più che altro sulla prevenzione, quindi sulle norme che disciplinano la costruzione delle unità e le dotazioni di sicurezza che è necessario imbarcare. L’articolo 4 dà in ogni caso per scontato “l’obbligo imposto al comandante di trasportare naufraghi”.
Nel frattempo in Italia il 30 marzo del 1942 con il Regio decreto a firma di Vittorio Emanuele III, veniva varato il nostro Codice della Navigazione che all’articolo 489 stabiliva che l’assistenza a una nave in pericolo “è obbligatoria” finché ciò non sottoponga a grave rischio la nave soccorritrice, il suo equipaggio e i suoi passeggeri. E che il comandante che abbia notizia del pericolo corso da una nave “è tenuto ad accorrere per prestare assistenza”. Quando la nave in pericolo è incapace di manovrare, si specifica poi nell’articolo 490, il comandante della nave soccorritrice “è tenuto a tentarne il salvataggio” e se ciò non è possibile a mettere in sicurezza le persone che si trovano a bordo.
A livello internazionale, tuttavia, i citati ordinamenti non fornivano strumenti operativi per coordinare i soccorsi in mare, lacuna che fu superata con la Convenzione di Amburgo del 1979, quando furono istituite le cosiddette Sar, ovvero aree di mare definite ben oltre i limiti delle acque territoriali, in cui ciascun Paese si assumeva l’onere di gestire prioritariamente eventuali interventi di salvataggio. Ciò attraverso strutture operative denominate Maritime Rescue Coordination Centre (Mrcc). L’Italia, la cui Sar occupa gran parte del Mediterraneo centrale, estendendosi verso Sud poco oltre Lampedusa, può contare su 16 centri di coordinamento che fanno capo alla Guardia Costiera. Oltre alla sede centrale di Roma ci sono infatti quelle di Genova, Livorno, Civitavecchia, Olbia, Cagliari, Napoli, Palermo, Catania, Reggio Calabria, Bari, Pescara, Ancona, Ravenna, Venezia e Trieste.
Sempre nell’ottica di disciplinare le operazioni di salvataggio in mare “in uno spirito di mutua comprensione e cooperazione” tra stati, il 10 dicembre 1982 fu infine ratificata la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare. L’articolo 98 è eloquente in materia di responsabilità sancendo che “ogni Stato deve esigere che il comandante di una nave che batte la sua bandiera, nella misura in cui gli sia possibile adempiere senza mettere a repentaglio la nave, l’equipaggio o i passeggeri, presti soccorso a chiunque sia trovato in mare in condizioni di pericolo”.
Aggiungiamo infine che nel nostro paese l’ingiustificata omissione di soccorso in mare è un reato punibile con la reclusione fino a tre anni come stabilito dagli articoli 1113, 1114 e 1158 del Codice della Navigazione.